Viaggi

Sarajevo (Сарајево)
Messaggio del 30-06-2009 alle ore 09:49:22
C’è un tempo per andare /dritti giù all’inferno
c’è un tempo per tornare /a saldare il conto
c’è un tempo di chiusura /e un tempo per volare
c’è un tempo che fa storia / e un tempo d’ammazzare
giorni e giorni





ci sono tempi morti /che non sai che fare
c’è un tempo per pensare /di farla finita
c’è un tempo per tentare /di riprenderci la vita
giorni miei /sono giorni giorni e giorni giorni miei
sono giorni giorni e giorni giorni miei




c’è un tempo del diluvio /e un tempo del conflitto
c’è un tempo che si perde /un tempo maledetto




c’è un tempo che hai voglia /e che ti senti meglio
c’è un tempo che vorresti /commettere uno sbaglio
giorni giorni miei




c’è un tempo che ti vuole /e un tempo che ti cerca
c’è un tempo che ti chiama /e un tempo che ti aspetta
c’è un tempo che è di piombo /e un tempo fatto di rosa
c’è un tempo che verrà /e cambierà ogni cosa
sono giorni giorni e giorni giorni miei





Gang- Giorni
Sarajevo, 26-29 giugno 2009
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Editato da Atelkin33 il 30/06/2009 alle 09:53:04
Messaggio del 30-06-2009 alle ore 09:51:56
Messaggio del 08-07-2009 alle ore 08:01:33
C’è quel muro che echeggia di storia. Storia recente, ecco perché riesco a sentirne l’urlo in sottofondo che si perde, pian piano, nella quotidianità apparentemente ritrovata. Una voce che scema di tono in tono, come diluendosi tra gli spazi aerei, di casa in casa, di strada in strada, per poi esplodere di violenza giornaliera sulla piazzetta.
Avevo camminato in altre città, dense fino al midollo di storia passata. Ciottolato medievale, archi rinascimentali, ondate ed ondate di manufatti rupestri. Monili, macchie, scritte e targhe, a memoria di un passato privato dell’eco: là dove voce è oramai persa, liquefatta tra le pieghe della storia, da sempre oggetto negoziabile tra vincenti e perdenti. In quelle città non potevo tendere l’orecchio al passato, le uniche voci che riuscivo a sentire erano le ripetute leggende dell’oralità, trasmesse volgarmente sulla carta, incise nei corridoi dei musei e vendute al miglior offerente narrativo del nostro secolo. Romanzo storico, dove i personaggi (e non le persone) diventano leggende ed i luoghi vengono colorati come sorprese di un uovo pasquale a buon mercato.
Qui l’eco è invece assordante, resta teso come il filo dei panni stesi. Ondulanti al vento delle parole, tra due balconi martoriati lentamente da un sole pallido, che con fatica cerca di filtrare tra le nebbie del lavoro quotidiano dell’uomo. Degli uomini anzi, in una città in cui è legittimata ogni pluralità semantica, prima che etnica. Una pluralità che leggi nelle rughe delle persone, ammassate l’un l’altra in piccoli rigagnoli di calce e mattone, sotto la contemporanea ombra di minareti e torri cristiane, assuefatte dall’odore dell’incenso e chiuse nelle urla del predicatore di quartiere. Abbottonate ai piccoli oggetti della propria vita, mostra la perdita di ogni aspetto ludico che ne contraddistingua la frazionata vita dei rioni. Laddove, in altre città, avevo visto agglomerati di case cambiare nome e colori in base ad una presunta appartenenza geografica, prima che sociale e temporale, qui l’impatto estetico trasmette manifesto ogni singola sintesi di esistenza: un riassunto di vite, di fatti e lutti, di gioie e croci, di acqua dal cielo e sangue dall’asfalto.
Un percorso da mulattiera, ai lati due braccia di terra carica di pietre, un terra infame come un lanzichenecco al mercato dei soldati. L’erba che a fatica esce tra le rocce, lottando avidamente per un posto tra i mortali, alimentata da quello stesso sangue che scende inversamente verso di lei, misto alla polvere del crollo, prima, e del lavoro dell’uomo, poi. La lentezza metodica di una donna al pascolo, solitaria nella fiera compagnia di una mucca non più grassa al suo fianco. Il rumore, ruggine auditiva, di un motore sfiancato da dossi e montagne, o dalla corsa quotidiana verso l’ospedale o la casa del parente.
Una sosta al bordo della lingua di asfalto, con l’auto che pende verso il ciglio trasformato in rigagnolo contadino per i campi attigui. La sigaretta accesa nel silenzio di un surrealismo fatto uomo, terra, cielo, vento e cemento: ne sento lo sfrigolio del consumo cartaceo, la passionale avidità del fuoco e il lento andare del fumo. Sogno, come a legittimare il contesto, il suono di libertà del canto di un uccello, ma è vuoto il sottofondo nell’alba balcanica. Sento solo echeggiare, questa volta di richiamo e preghiera e non di storia, il canto dal minareto, tutto intorno a me.

Virgileo viaggio ed odìssea quotidiana.

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